Il calcio che ci avevano spiegato da bambini era piuttosto semplice. C’erano delle regole e si giocava; il più forte vinceva. Ad aiutare a rispettare le regole, l’arbitro. A raccontare quel che accadeva, la stampa. A sostenere le squadre, i tifosi.
Il tempo e soprattutto i soldi hanno fatto cambiare molto.
Essere forti in campo non è stato più l’unico elemento determinante. Chi doveva far rispettare le regole spesso ha “usato” le regole per invertire i risultati. Le narrazioni mediatiche sono diventate distorte, surreali. L’illecito tollerato e giustificato.
Primeggiare in questa Serie A, se non sei una delle 3 più tifate, praticamente impossibile. E’ sempre una questione di palla che rotola, certo. Di giocatori. Ma non solo.
I giocatori forti già di per sé vanno nelle squadre più ricche e più potenti. Ci sarebbero regole finanziarie a disciplinare i mercati, ma chi è potente spesso le elude a danno di chi ha già meno mezzi. Chi dovrebbe vigilare è espressione di chi esercita quel potere e quindi tace. Chi dovrebbe denunciare e raccontare ha abdicato da tempo ai sacri doveri dell’informazione. Chi dovrebbe far rispettare le regole in campo subisce spesso pressioni mediatiche e forse interne finendo, magari involontariamente, ad essere talvolta forte con i deboli e debole con i forti.
Gli ultimi 30 campionati hanno visto 28 volte vincere una delle tre. La partita si gioca sì in campo, ma è indubbio che si giochi anche fuori dal campo. Fuori dal campo nessuna ha, e forse mai avrà, la forza delle tre squadre più tifate, che rappresentano 2/3 dei tifosi italiani.
Non è un caso se dopo nove anni di predominio di una delle tre, quando finalmente si è passato il testimone, a raccoglierlo per due anni sono state le altre due, pur venendo da vicissitudini societarie e finanziarie più che complesse.
Se hai meno mezzi, se sei meno forte e se giochi in un sistema che anzichè garantire una più possibile equa competizione rema a tutela del suo interesse economico che non trova convenienza (ed è una visione a breve termine) nella sana competitività, vincere diventa ancor più difficile di quanto ragionevolmente già lo sia. Diventa un’impresa.
Ecco perchè spesso ci si è fatti bastare l’impresa estemporanea, la vittoria occasionale, quella che non ti ha portato titoli ma almeno la soddisfazione , l’illusione, che Davide possa battere Golia.
Quest’anno il Napoli sta provando l’impresa. Usando l’unico mezzo a disposizione: il campo. Ha provato ad essere più bravo di tutti nell’allestire la squadra dovendo rispondere ad esigenze di riduzione dei costi che altri si sono permessi di non rispettare, pur avendo già di partenza risorse maggiori.
Ha provato ad essere, in campo, superiore più di quanto necessario; molto di più. Per prevenire qualsiasi “fatalità”, imprevisto. Per prevenire la sfortuna, l’errore.
L’ha fatto in un clima mediatico che dire ostile è francamente riduttivo, perchè totalmente prono alle tre squadre più tifate; non per complottismo ma proprio per il perseguimento di quel mero interesse economico in spregio alle più elementari regole deontologiche.
L’ha fatto mantenendo la calma e guardando avanti. E trovandosi ora, a una settimana dal giro di boa, ad almeno + 7 dalla seconda attendendo gli altri match di oggi.
L’ha fatto respingendo la squadra più titolata d’Italia, seconda in classifica, dominatrice dell’ultimo decennio, centro di potere e al centro di indagini e processi, con cinque palloni che sono stati molto più di una vittoria, ma una sonora “paliata” di quelle umilianti. Non una vittoria “estemporanea”, ma atta a sancire un limpido percorso fatto di sano calcio, riconosciuto in tutta europa.
L’ha fatto costringendo il più antico quotidiano sportivo d’europa, diventato la barzelletta del giornalismo nostrano ormai da anni, a dedicare tutta la prima pagina al Napoli PER LA PRIMA VOLTA.
L’ha fatto restituendo ai tifosi di ogni squadra una speranza; che le imprese siano possibili.
Non cambierà dall’oggi al domani la visione miope di chi dirige il calcio in Italia; non cambierà dall’oggi al domani il servilismo mediatico. Non cambierà dall’oggi al domani la pessima cultura di questo paese, debole con i forti e forte con i deboli.
Ma se cambierà qualcosa è un dato di fatto che quel cambiamento sta partendo da qui. E farà bene non solo alla tifoseria partenopea, che ha avuto lo storico merito di non smettere mai di crederci nella sua storia, ma a tutto il calcio italiano.
Magari non lo sanno ancora, ma lo scopriranno.